Pillole di resilienza anti-coronavirus. Dalla negazione all’ansia da pandemia, la tecnologia diventa ponte di emozioni
AUGUSTA – Nell’emergenza sanitaria da Coronavirus, c’è da fare i conti anche con i risvolti psicologici a cui vanno incontro i cittadini in isolamento domiciliare per settimane come anche i lavoratori delle categorie rimaste attive, perché “essenziali” per decreto, in città semi-deserte. Accanto alle notizie, quelle verificate, su quanto sta accadendo, abbiamo ritenuto di fornire un ulteriore strumento di comprensione ai nostri lettori sul fronte psico-sociale. Così nasce la rubrica chiamata “Pillole di resilienza”, in chiave divulgativa, a cura dello psicologo augustano Francesco Cannavà.
Nel corso degli ultimi vent’anni, le società industrializzate e tecnologiche del mondo, hanno creato la convinzione popolare che grazie alla tecnologia e ad internet, abbiamo accesso a infinite risorse e soluzioni a qualsiasi problema. La tecnologia connessa in rete azzera distanze e tempo, generando, soprattutto nei millennials, una percezione virtuale di onnipotenza, ma al contempo, determinando una profonda riduzione delle certezze personali, ed una fragilità della struttura e delle difese dell’IO, che secondo le principali correnti scientifiche che studiano la persona, si creano nell’individuo attraverso l’esperienza personale reale e concreta di relazione, di soluzione dei problemi e di messa alla prove delle proprie capacità.
Il risultato di tale arrogante percezione di sé, maturato dai popoli tecnologicamente avanzati, di fronte alla nascita e al diffondersi dell’epidemia di coronavirus in Cina, si è concretizzato con il dilagare di comportamenti irresponsabili di aggregazione e spostamento massivo nella prima fase della diffusione del virus in Asia, come reazione alla paura del contagio caratterizzata dalla negazione del problema. Il meccanismo di difesa psicologico della negazione è poco evoluto sul piano della maturità psichica dell’uomo e si è manifestato con comportamenti di minimizzazione e di spocchiosa indifferenza rispetto al rischio. Si potrebbe dire che l’iniziale approccio italiano al rischio epidemico sia stato “infantile”.
Nella fase immediatamente successiva di espansione dell’epidemia, accanto a tale reazione si è osservato lo sviluppo di una “paranoia collettiva”, in cui il rischio per sé era dovuto all’altro, al diverso, al lontano… al Cinese! E quindi giù con ghettizzazioni, razzismo e stereotipi culturali da caccia agli untori. Quando il focolaio è scoppiato al nord Italia il problema erano i Lombardi e quando si è esteso a tutto il paese eravamo noi Italiani gli untori d’Europa. Abbiamo capito cosa si prova ad essere il “problema” con porti e confini chiusi in faccia, come troppo spesso l’Europa ha fatto con chi fuggiva da altri mali.
Questa paranoia è stata prodotta da un altro effetto della fragile mente umana, che ha tentato di allontanare da sé il “lurido problema”, proiettandolo e attaccandolo al bersaglio facile e abbastanza distante da potergli riversare contro tutta la rabbia prodotta dalla paura di essere contagiati da quel virus invisibile e ignoto che il tempo ha dimostrato essere più democratico dell’uomo stesso, restando indifferente al ceto, alla cultura o alla razza del suo ospite. L’ansia e la paura generano sempre anche rabbia e questa ha bisogno di un bersaglio per esprimersi in comportamenti atti a scaricare la tensione dandoci la sensazione di “controllare” il problema.
Oggi che viviamo la pandemia reclusi in casa, osserviamo il dilagare dell’ansia da contagio, fortemente amplificata e diffusa da trasmissioni televisive e soprattutto social network. Quest’ansia diffusa produce spesso su internet comportamenti compulsivi di ricerca e diffusione di informazioni con modalità impulsiva e priva di valutazioni razionali dei contenuti condivisi a carattere ansiogeno. Ciò innesca un effetto “virale” che provoca il dilagare dell’ansia da pandemia, capace di innescare anche fenomeni emergenziali di massa, come la corsa all’acquisto dei dispositivi di protezione individuale (disinfettanti, guanti, mascherine) e delle derrate alimentari. Per la prima volta dal dopoguerra ad oggi l’uomo è nudo davanti alla sua forma vulnerabile di essere vivente, riflessa migliaia di volte dagli schermi dei nostri smartphone, come spietati specchi deformanti che amplificano le nostre fragilità.
Questa epidemia ha spezzato l’illusione dell’uomo immune a tutto grazie alla tecnologia rivelandoci il vero volto dell’umanità del 2020: fragile, vulnerabile e spaventata di fronte all’infinitamente piccolo e privo di cervello e intenzioni, ma capace di infliggere la più severa ferita che l’uomo abbia mai subito a livello globale da quel pianeta che si illudeva di governare impunemente a suo piacimento.
Abbiamo imparato che il contatto, l’empatia e la prossimità affettiva, annullati dalla tecnologia, sono ancora un bisogno primario di questa specie che sta lottando con ogni mezzo per sconfiggere il virus.
È questo il momento in cui lo spirito di sopravvivenza, che ha reso l’uomo l’animale più adattabile al mondo, gioca la sua carta: la resilienza. La capacità di resistere e rialzarsi. L’uomo sta imparando che deve trovare in sé la forza per lottare contro l’invisibile, sia esso rappresentato dal virus o dalla paura di perdere un congiunto, il lavoro, le certezze o la vita. Nel gruppo stiamo trovando la strategia per proteggerci da tutte queste paure. Quella tecnologia che ci ha reso inizialmente soli, nelle ultime settimane sta diventando ponte di emozioni, affetti, cultura, fede, alleanza, di un popolo che lotta unito quando trova un nemico comune… e lo sconfigge.
Francesco Cannavà*
*Psicologo