Ieri, accompagnato da un sole che sembrava voler mandare a quel paese il concetto di mezze stagioni, ho iniziato una lunga discussione sugli idoli generazionali. Sulle icone, sui miti del mondo della musica, su come manchino personalità di spicco e carisma in questo periodo storico. Su quante invece ce ne siano state in passato, idoli di cui purtroppo data l’eta ho soltanto sentito parlare.
Ed ovviamente, quando si inizia questo discorso infinito, una parentesi importante non può che essere fatta sul famigerato “Club 27”. Quell’enorme gruppo di artisti musicali strappati troppo presto a questo mondo, la cui morte ha con ogni probabilità privato la musica di infiniti altri capolavori che sarebbero potuti nascere dal loro genio. Il discorso è diventato così lungo e ramificato che ci siamo trovati a parlare di teologia e fisica quantistica senza sapere come ci fossimo arrivati, però queste parentesi musicali che si dipanano in storie di vita sono sempre fantastiche da affrontare.
Stamattina, ripensando a quel discorso mi sono reso conto che siamo già al 4 ottobre di questo 2015, e a proposito di icone e miti questa è una data fin troppo importante. Sono passati infatti 45 anni da quel 4 ottobre del ’70, quando in quella tragica notte ad Hollywood, per una dose di troppo morì la mitica Janis Joplin. Una morte che non fece altro che proseguire quel cammino nefasto inaugurato poco più di un anno prima da Brian Jones, morto annegato nella su piscina. Cammino proseguito con la scomparsa di Jimi Hendrix che anticiperà di soli quindici giorni quella di Janis e che proseguirà ancora a due anni esatti dalla scomparsa di Brian Jones con un’altra leggenda. Il 3 luglio del ’71 infatti verrà trovato morto per un presunto arresto cardiaco Jim Morrison.
Il denominatore comune di queste scomparse, oltre alle date ravvicinate, è ovviamente l’eta, tutti maledettamente ventisettenni. Se si allargano gli orizzonti si scopre che questa cerchia è ben più vasta, ma è tutta un’altra storia, dal momento che la “protagonista” di oggi è Janis.
Una donna che nell’immaginario collettivo detiene lo scettro della “Donna del Rock” per eccellenza. La voce più blues del rock femminile, capace di incantare e lasciare basiti come solo pochi nella storia della musica sono riusciti a fare. Con gli altri grandi del tempo condivise un’esistenza inquieta e un range di tolleranza ad alcol e droghe da fare “invidia” a un uomo. Ma Janis lo dimostrava cantando che non era una che amava piangersi addosso. Piuttosto preferiva servirsi del suo potente canto per urlare al mondo le sue frustrazioni, la sua insoddisfazione.
Era capace di dar vita a performance incendiarie ed ululanti con la sua voce capace di adattarsi ad un climax emotivo invidiato anche dalle più grandi figure maschili della storia del genere. Il canto di Janis si piega, si fa dolce, si rabbonisce ed in uno schiocco di dita si infiamma e anche quando sembra sul punto di sparire è capace di urlare e gridare la propria rabbia. Il pubblico si struggeva ascoltando tanta potenza, tanta drammaticità, ascoltando una donna profondamente sola con se stessa con la voce più forte di mille persone.

Fonte della foto: http://www.artnet.com/usernet/awc/awc_workdetail.asp?aid=424500914&gid=424500914&cid=126908&wid=425293670¤tPage=9&page=2
Scosse il mondo prendendolo a schiaffi in faccia, prima con la performance del Festival di Monterey nel ’67 insieme ai “Big Brother and the Holding Company” e successivamente due anni dopo a Woodstock come solista. Due performance di una bellezza disarmante dove il talento, la forza emotiva e il carisma della Joplin ebbero il sopravvento. Venne subito eletta regina del rock e divenne una sex symbol dell’epoca, dotata di una bellezza selvaggia ed autentica. Divenne l’alter ego femminile delle icone maschili del rock dell’epoca.
Paladina di un blues-rock acido, sguaiato, pestato e tremendamente puro. Un pezzo normale e canonico per quanto buono grazie alle performance divine di Janis che riuscivano a nobilitare la natura del brano, veniva trasformato e trasfigurato. Tra tutte le sue reinterpretazioni spicca sicuramente quella in chiave acida di “Summertime” di George Gershwin.
Finisce presto, a soli 27 anni, la parabola della carriera di Janis, dopo essere fuggita a 17 da casa, lasciando quella che reputava una prigione natale, lasciando le paure e le inquietudini di una ragazzina sovrappeso con la pelle rovinata dall’acne. Finì tragicamente la sua storia, in un motel di Hollywood per una overdose di eroina che spense per sempre la luce dagli occhi di Janis, privando il mondo della sua voce appassionata e straziante. Una voce capace di essere contemporaneamente ruggine e miele, capace di affiancare la tipica malinconia del blues al fuoco psichedelico. Quello della Joplin era un canto unico ed inimitabile in tutta la storia del rock, una musa capace di incantare il pubblico di tante generazioni.
Ci ha lasciato prematuramente con un presagio contenuto nell’album capolavoro “Pearl” rilasciato postumo, presagio che darà il titolo ad una canzone del disco “Buried Alive in The Blues”, sepolta viva nel blues. Un album leggendario che la consacrerà all’unanimità come una delle migliori interpreti bianche del blues di tutti i tempi. Un disco pieno di perle, fra tutte “Cry Baby” e la fantastica rivisitazione di “Me and BobbyMcGee”, che le regalò dopo la morte la vetta della classifica dei singoli. Un album dove la voce di Janis che accompagnata dalla band si innalza fino a toccare il cielo dove tuttora risiede a distanza di quarantacinque anni.