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Riflessioni di una scout augustana dopo l’iniziativa Agesci a Lampedusa

AUGUSTA – Riceviamo dal Gruppo Scout Agesci Augusta 3 e pubblichiamo volentieri qui di seguito la riflessione di una diciottenne augustana, Giorgia, sul tema dell’immigrazione. La ragazza ha partecipato al meeting promosso da Agesci (Associazione guide e scouts cattolici italiani), che si è tenuto a Lampedusa dal 26 al 29 maggio, dal titolo “Riflessi in mare“. La finalità dell’evento è stata quella di raccogliere l’esortazione che Papa Francesco ha rivolto all’associazione durante l’udienza del 13 giugno 2015 in piazza San Pietro, “Voi fate ponti!”, e di provare a costruire un ponte di solidarietà “da Lampedusa al Brennero”. Da qui, insieme ad altri quindici coetanei siciliani, anche l’idea di redigere un documento, che verrà inviato ai vertici dell’Unione europea.

Il cuore non sta sempre nello stesso posto. Solitamente quando viene chiesto dove esso si trovi si risponde: nella parte sinistra del petto. Io penso che il cuore di una persona vive in mille luoghi diversi a seconda delle emozioni che è stato in grado di trasmettere quel luogo. Oppure viene lasciato nelle mani di altre persone.

Io una parte del mio cuore l’ho lasciata in una piccola isola del Mediterraneo: si chiama Lampedusa. Insieme ad altri quindici ragazzi provenienti da ogni parte della Sicilia abbiamo avuto l’opportunità di vivere un’esperienza formativa sul tema “immigrazione”. Come ogni esperienza lascia sempre qualcosa in me. E le esperienze, si sa, lasciano emozioni, sensazioni, sentimenti forti e inspiegabili.

Come in ogni esperienza vi sono le aspettative, la realtà e il confronto fra le prime e la seconda. Credo fermamente che si sia instaurato un legame forte quasi indissolubile che mi terrà legata a quelli che inizialmente erano dei semplici compagni di avventura e che, in perfetta coerenza con ciò che la legge Scout suggerisce, sono diventati dei fratelli. Avete presente quell’alchimia che si crea tra due individui che hanno trascorso un’intera vita insieme? Io l’ho trovata in loro dal primo giorno in cui i nostri sguardi si sono incrociati. Sapevo che eravamo sedici ragazzi, con sedici cadenze dello stesso dialetto, con sedici fazzolettoni diversi al collo, con sedici distinti caratteri ma con una sola promessa nel cuore e con una sola grande responsabilità: informazione. Forse è proprio questo che ci ha spinti a godere ogni singolo momento trascorso insieme tenendo sempre le orecchie tese di un lupetto, l’entusiasmo di un esploratore e la responsabilità di un rover.

Credo nei miracoli. Credo che l’isola di Lampedusa sia un miracolo di Dio. Così come lo sono quelle due anime venute al mondo grazie all’infermiere della nave Libra che ci ha coinvolti in questo racconto nello stesso luogo in cui sono avvenuti i parti: l’hangar della nave; è espressione di Dio il dottor Bartolo che fa del proprio mestiere una missione, che tiene a specificare che lui è un umano non un eroe e che ha tratto in salvo la vita di un bimbo di 5 anni arrivato all’isola con una grave ipotermia la notte precedente al racconto.

È un miracolo la bontà del parroco dell’isola e quella di Costantino e Rosa che in seguito alla famosa notte del 3 ottobre decidono di ospitare in casa propria sei ragazzi, raccolti su un motoscafo da Costantino dopo il naufragio. È anche solo un miracolo, per me, che questi ragazzi chiamino mamma la signora Rosa.

È mamma lei, ma è mamma l’isola di Lampedusa che con cuore grande e braccia aperte accoglie i migranti senza dispiacere. Ci è stato raccontato che quando gli immigrati arrivano al porto tratti in salvo dalla Marina Militare, dalla Guardia Costiera e da chiunque abbia un’imbarcazione in grado di accoglierli, tutti si offrono di aiutarli. In quel preciso istante non esiste differenza di sesso, condizione sociale e posizione politica.

Secondo me il miracolo sta proprio in questo: nel cedere all’altro la propria coperta, il proprio latte, il proprio conforto, il proprio sorriso. Come a dire noi ci siamo, siete vivi.

Ricorderò per sempre le parole del dottor Bartolo, il quale racconta di essersi avvicinato un giorno a quattro corpi ai quali avrebbe fatto di lì a poco l’ispezione cadaverica e di averne scoperto uno vivo. Quello di una ragazza. Il battito cardiaco di una ragazza. Battito uguale vita. Vita uguale speranza.

Sono tante le cose che avrei da raccontare, da scrivere, da divulgare ma più di tutto ho sentito crescere dentro me un desiderio di riscatto nei riguardi di un’umanità che non va evitata. Non esistono umani di serie A e umani di serie B. Non si può pensare che arrivino in Italia per rubare il nostro lavoro. Non si può pensare questo di un uomo che parte dal proprio paese, affronta un viaggio che dura mesi, arriva in Libia, lavora per quasi due anni per pagare quello che è il viaggio della speranza. Non si può dire questo di un uomo che sale su un barcone fradicio e insicuro insieme ad altre centinaia di persone con le sue stesse paure e con la stessa ragione per cui fuggono disperatamente: la guerra.

Se immaginiamo un cielo stellato a noi viene in mente un’idea romantica, pensiamo all’amore, alla tenerezza, alla dolcezza… No? Quelli che noi chiamiamo “neri” quel cielo lo guardano per mesi alla ricerca della propria stella polare: la libertà. Lo guardano in cerca di speranza, lo guardano piangendo, stringendo a se quel poco che hanno portato da casa e che pian piano gli scafisti gli vanno levando.

Noi quel cielo lo abbiamo guardato la notte prima del nostro ritorno, io l’ho guardato e ho pensato che finché siamo tutti sotto lo stesso cielo qualcosa si potrà ancora fare, finché ci sarà vita ci sarà speranza. E finché ci sarà l’umanità ci saranno umani, non eroi.

Giorgia – “Clan della Speranza”


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